VIII

LE NOVELLE DEL «FURIOSO»

La varietà di fatti, tempi, paesaggi, situazioni, personaggi, toni, che caratterizza il movimentato e mutevole ritmo poetico del Furioso, appare, come abbiamo piú volte detto, una specie di altissima sintesi della vita in tutta la sua varietà. Ma occorrerà aggiungere che non si tratta soltanto di varietà dei toni, delle situazioni, dei personaggi, ma anche di varietà del taglio stesso degli episodi, con l’inserzione di spunti novellistici accanto a momenti piú largamente aderenti ai nodi generali del racconto.

L’Ariosto è un grande poeta narratore, possiede del narratore la tecnica perfetta e scaltrita: cosí entro la trama del poema, nelle pieghe delle sue linee fondamentali, egli sa costruire quasi dei racconti piú brevi, o addirittura delle vere e proprie novelle.

Ritroviamo cosí un altro dei grandi motivi dell’amore dei lettori del Cinquecento per il Furioso, che appare in netta consonanza con quel gusto del puro narrare che, in quel secolo, ebbe uno sviluppo assai imponente nello specifico genere letterario della novellistica.

Le «novelle», che si inseriscono nel corso del poema con un’abbondanza che può far pensare anche all’uso analogo del Cervantes nel Don Chisciotte, vanno viste nella loro piena aderenza alla sua linea vitale, senza insistere su una loro presunta secondarietà e quasi minore serietà rispetto alla trama centrale. Esse vivono anzitutto assai spesso come corrispettivo narrativo delle sentenze sull’esperienza della vita, frequenti nel poema, soprattutto all’inizio dei vari canti.

Se si vuole accennare en passant al valore di queste sentenze, va detto che esse, mentre sembrano portare una luce piú ambigua al tono morale delle Satire, in realtà servono proprio a sostenere ancor piú l’unità interna dell’opera, con la loro saggezza musicale fra scherzosa e solenne, che precisa con un impegno tutto risolto ed agevole, e perciò non moralistico, il senso della dialettica armonia della vita che anima la poesia ariostesca. Si veda, ad esempio, l’ottava con cui si apre la parte centrale del famoso episodio di Cloridano e Medoro, che mostra direttamente come su di una forma di ironica saggezza sappiano innestarsi punte di commozione e di partecipazione piú intensa per certi valori di lealtà e di fede:

Alcun non può saper da chi sia amato,

quando felice in su la ruota siede;

però c’ha i veri e i finti amici a lato,

che mostran tutti una medesma fede.

Se poi si cangia in tristo il lieto stato,

volta la turba adulatrice il piede;

e quel che di cor ama riman forte,

et ama il suo signor dopo la morte.

(XIX, 1)

Le sentenze dell’Ariosto non vanno perciò considerate come elementi secondari, pause semplicemente moralistiche, perché sono appunto la presentazione esplicita e sicura della larga moralità ariostesca, che si riassume in nobile fiducia nella vita, aliena da facili ottimismi come da disperazioni assolute.

Questa «saggezza» ariostesca, e particolarmente quella espressa nelle sentenze di carattere amoroso, confluisce, come si diceva, con trapasso piú circostanziato, nelle novelle, aliena come è dal voler creare una precettistica o una casistica, pronta a trasformarsi in pretesti piú determinati di ritmi concisi e serrati, di movimenti leggeri, di sentimenti stilizzati, in tutta la loro complessità, con qualche punta di gusto miniaturistico, melodrammatico e fiabesco.

Anche le novelle dotate di una esteriore funzione narrativa, in rapporto alla trama generale del poema, si svolgono in dimensioni di estrema libertà ed agevolezza: cosí quella celebre di Fiammetta, affidata ad una misura comica e francamente sensuale, che punta, come spesso avviene nel Furioso, sulla infedeltà delle donne e sull’impossibilità di premunirsene. La novella viene narrata da un oste per consolare Rodomonte, il quale è tutto afflitto per il tradimento che gli ha fatto l’amata Doralice, e, nei riguardi dell’architettura esterna del poema, trovandosi prima della morte di Isabella, può mostrare anche l’intento di far risaltare per contrasto la fedeltà sublime della donna gentile dopo l’affermazione dell’infedeltà generale delle donne; ma nella sua misura ampia, ma non eccessiva, è capace altresí di condensare e di svolgere, senza intoppi e senza indugi, una lunga, complessa e tutta comica vicenda, con quella franca sensualità ariostesca che ancora una volta andrà distinta da ogni forma di vera e propria oscenità e lascivia, tanto è sana, spregiudicata, istintiva, naturale. E l’atto generoso di Isabella, che seguirà di poco la narrazione della novella, apparirà allora come sbocciato dal pieno della leggerezza e dell’istintività della vita. Si vedrà cosí che il libertinismo di questa e di altre novelle ariostesche non è la voce di un uomo scettico, senza fiducia nella costanza e nella nobiltà dei sentimenti, ma quella di chi sa vedere la vita nei suoi molteplici aspetti e contraddizioni, in tutta la sua varietà, ben cosciente che gli atti piú alti e generosi, ideali, non nascono in cieli trascendenti ed astratti, ma sul terreno vario del mondo concreto, comune, accettato anch’esso nella sua elementare positività.

Lo stesso tono libertino della novella di Fiammetta, con un ritmo piú autonomo e prolungato, in contrappunti leggeri di magiche e preziose invenzioni, di improvvise apparizioni, di motivi che sgorgano vivaci continuamente rincorrendosi, presenta la lunga novella del dottor Anselmo nel canto XLIII, anche se con un fare forse meno nitido, meno sereno e lieto, giustificato magari dalla stessa durezza del motivo-base, che è la constatazione che la sete di denaro può far crollare qualunque fedeltà amorosa.

Dominato al contrario da un’aria di ingenua malizia appare il racconto, incantevole per la sua freschezza e spregiudicatezza, della storia d’amore della giovanissima Fiordispina, dove certi punti risolutivi rivelano una accorta sapienza psicologica, viva nella coscienza della non sempre sicura commensurabilità tra i fatti e le abitudini della vita, del labile confine tra realtà e sogno, e pur assorbita nel tono leggero, ingenuamente e maliziosamente sensuale di tutta la novella.

Altre volte si tratterà, invece, piú che di vere e proprie novelle, di episodi minori inseriti nelle pieghe del racconto maggiore, e con un loro taglio piú breve, con un narrare piú minuto, in qualche modo piú agile, quasi miniaturistico, con un gusto dei personaggi ridotti a sottili e agilissime figurine, non privi però della loro fondamentale psicologia, dei loro sentimenti, ma come piú stilizzati e semplificati.

Si pensi ad un episodio intessuto di toni fiabeschi e leggendari, come quello di re Norandino, cui l’Orco rapisce la moglie Lucina, e che coraggiosamente si reca fino alla spelonca del mostruoso personaggio per poterla liberare.

E particolarmente si rilegga l’ottava in cui è descritto il rapimento della donna, insieme ai suoi accompagnatori: la figura dell’Orco si snoda in membra tra gorillesche e gigantesche, mentre quel suo rapido impadronirsi della preda, la cura con cui è visto riempire lo zaino, che porta al fianco come un pastore, individua in colori nettissimi la pseudoumanità del bestione:

Corron chi qua chi là; ma poco lece

da lui fuggir, veloce piú che ’l Noto.

Di quaranta persone, a pena diece

sopra il navilio si salvaro a nuoto.

Sotto il braccio un fastel d’alcuni fece,

né il grembio si lasciò né il seno vòto;

un suo capace zaino empissene anco,

che gli pendea, come a pastor, dal fianco.

(XVII, 32)

E si legga ancora questa ottava, che ci mostra Norandino che giunge alla spelonca dell’Orco, e trova la «moglie» di costui, cosí umana, cosí lontana dalla bestialità del marito:

Quivi Fortuna il re da tempo guida;

che senza l’Orco in casa era la moglie.

Come ella ’l vede: «Fuggine! (gli grida)

misero te, se l’Orco ti ci coglie!»

«Coglia (disse) o non coglia, o salvi o uccida,

che miserrimo i’ sia non mi si toglie.

Disir mi mena, e non error di via,

c’ho di morir presso alla moglie mia».

(XVII, 39)

Dialogo vivacissimo, dove il tono di spontaneità popolare dell’Orchessa è quasi rinforzato dalla ripresa animosa di Norandino, che poi si distende in appassionata elegia.

Ancora, su di una linea estremamente raffinata, dove la precisione ariostesca tende a inquadrature sottili e minute, a un procedere meno aereo e piú gustoso, legato ad una incisività miniaturistica, ad un breve giro melodrammatico, ad una minuscola scenografia, possiamo ricordare l’episodio di Marganorre, nel canto XXXVII, ricco di scene lugubri, di decisioni quasi machiavelliche, con un gusto di narrazione-azione, che si può riscontrare perfino nella forma lucida, sintetica, precisa di una sola ottava, che concentra e ricapitola tutta un’azione: uno dei figli di Marganorre, Tanacro, innamorato della moglie di un cavaliere straniero, Olindro, fa assalire costui dai suoi fedeli, e gli toglie la vita e la donna:

Con gran silenzio fece quella notte

seco raccor da vent’uomini armati;

e lontan dal castel, fra certe grotte

che si trovan tra via, messe gli aguati.

Quivi ad Olindro il dí le strade rotte,

e chiusi i passi fur da tutti i lati;

e ben che fe’ lunga difesa e molta,

pur la moglie e la vita gli fu tolta.

(XXXVII, 55)

L’ottava, con la raccolta tacita degli armati in primo piano, poi con la desolata scena, senza commento, della lotta inutile di Olindro che tenta invano di fuggire e dovunque trova gli armati in agguato, mostra una estrema lucidità, una capacità di riassumere una lunga vicenda in uno spazio brevissimo.

E nella parte piú novellistica di un altro episodio, quello di Olimpia, lo stesso gusto dell’azione cosí profondo e radicato nell’Ariosto, capace di esprimersi attraverso forme lucide e sintetiche, entro orli secchi e frizzanti, sa concentrarsi ugualmente in una sola ottava: è Olimpia che uccide, con l’aiuto di un fedele servitore, il marito che le è imposto dall’odiato Cimosco e che ella non vuole avere:

Io dietro alle cortine avea nascoso

quel mio fedele; il qual nulla si mosse

prima che a me venir vide lo sposo;

e non l’attese che corcato fosse,

ch’alzò un’accetta, e con sí valoroso

braccio dietro nel capo lo percosse,

che gli levò la vita e la parola:

io saltai presta, e gli segai la gola.

(IX, 41)

L’insistenza su questi ritmi rapidi ed abbreviati, su questa implacabile fermezza narrativa, senza commenti e senza esitazioni, farebbe considerare le «novelle» quasi come zone laterali in cui l’artista scarica il suo gusto di narratore puro, se non sentissimo poi la coerenza non esterna che lega gli episodi su cui ci siamo ora fermati alla grande linea del poema, alla sua unica avventura di viaggi, di ritmo vitale-poetico.